Profugo racconta la prigionia: "Aiutatiamoci in Africa"

La storia incredibile di Malamine, senegalese: dalle prigioni in Libia fino a Monza

Profugo racconta la prigionia: "Aiutatiamoci in Africa"
Pubblicato:
Aggiornato:

Ci sono i brianzoli che accolgono gli africani (come abbiamo raccontato qui) e poi gli africani che vorrebbero aiutare in prima persona i connazionali ma a casa loro. Può sembrare uno slogan leghista e invece sono proprio i migranti arrivati in Italia ad aver creato un movimento, «Africa 1, Africani per l’Africa» che vuole  sostenere l’aiuto nel paese d’origine.

Africani per l'Africa

«Noi africani dobbiamo sostenerci e supportarci per trovare la forza di cambiare la nostra situazione», spiega il gruppo che ha recentemente organizzato una cena per il Ramadan (cucinata dalla chef sierraleonese Renata Mang-Kaprr Kamara) destinata  ai migranti africani della stazione centrale di Milano).  Questo è il movimento rivoluzionario che sta nascendo dalle storie di sofferenza e lotta per la propria libertà di alcuni giovani migranti africani. Quello che accomuna e unisce le testimonianze raccolte è l’orgoglio, la dignità e il rispetto per se stessi davanti a coloro «che tengono in schiavitù i fratelli e le sorelle».

La storia: dalla Libia all’Italia

Tra loro c’è anche Malamine Tounkara, 22 anni che arriva dal Senegal e  vive a Monza. «Nel 2015 ho lasciato la mia terra per la Libia. Non avevo intenzione di venire in Italia e non ci pensavo nemmeno. Per motivi familiari non potevo rimanere nel mio paese quindi ho preso un pullman e sono partito. Ci sono diversi confini da superare prima di arrivare in Libia e  per passare da uno stato all’altro devi pagare. Nessuno ti chiede i documenti, ma solo i soldi». Ma all’arrivo in Libia il ragazzo scopre che la situazione era molto più pericolosa di quanto pensasse. «Pensavo di trovare lavoro lì ma invece ho rischiato la vita. Hanno ammazzato 2 amici davanti ai miei occhi. In Libia li ammazzano i neri. Sono rimasto 1 mese e 2 settimane e poi sono riuscito a scappare in Italia perché non potevo tornare indietro», racconta tutto d’un fiato.  In mezzo anche un periodo nelle prigioni libiche. «Volevano chiedere soldi alla mia famiglia e per costringere i famigliari a pagare ti torturano. Non puoi immaginare quante persone sono morte. Se entri in Libia come schiavo la porta per tornare indietro si chiude alle tue spalle e l’unica possibilità è l’Italia. Dopo tre settimane io e gli altri prigionieri ci siamo ribellati ed è nata una rivolta Siamo riusciti a salire su uno dei gommoni in partenza per l’Italia e ci siamo salvati».

L'arrivo in Italia

«Sono arrivato a Palermo e da lì mi hanno messo su un pullman per il centro di accoglienza di Agrate, dove ci hanno coinvolto in lavori di manutenzione come volontari. Poi sono passato a Lissone e da dicembre 2018 sono a Monza». Qui ha conosciuto il presidente del movimento Africa 1 Diogoye Senghor, 32 anni, che lo ha invitato ad un concerto contro il razzismo dove si esibiva il rapper di seconda generazione Laioung. «Abbiamo parlato di progetti ed è iniziata la nostra collaborazione. Anche io ho lottato per ottenere la mia libertà. Quando ho iniziato ad ascoltare i testi delle canzoni di Laioung ho trovato la forza per creare un movimento che ha l’obiettivo di risvegliare i nostri fratelli e le nostre sorelle. Partendo dall’Italia, vogliamo far capire agli africani che l’unione fa la forza. Dobbiamo unirci ed essere solidali tra di noi. Noi Africani dobbiamo lottare per l’Africa e per i nostri connazionali», afferma il presidente.

Dall’Africa al ghetto

Anche quella di Senghor è una storia di lotta per la libertà: «Sono arrivato a Roma con un visto turistico e sono finito a dormire in una stalla in Puglia e a raccogliere pomodori. Noi chiamavamo quella città «Ghetto» e lo era davvero. Dormivo con i cavalli assieme a 150 persone, tutti africani. Ci facevano mangiare il cibo scaduto e non potevamo uscire per fare la spesa. Lavoravamo 8 ore e ci pagavano 15 euro al giorno ma dovevamo darne 5 per il trasporto nei campi. Non potevamo nemmeno comprare il biglietto del treno e scappare quindi eravamo costretti a stare lì. Molti hanno iniziato a stare male per via del cibo scaduto così un giorno ci siamo ribellati e siamo andati a fare la spesa.  Non sai quante persone muoiono in questi campi. Io sono nato attivista e quando ho visto quella situazione ho deciso che doveva finire.  Quando gli ho detto che avrei chiamato la finanza si sono spaventati e così ci hanno lasciato cucinare».

Seguici sui nostri canali
Necrologie